Perché lo schwa non convince

Sono mesi che tento di incanalare le mie riflessioni in un contenitore unico, spendibile in un confronto su una delle questioni più dibattute del momento: l’uso dello schwa.

C’è chi la definisce una rivoluzione culturale, di inclusione linguistica, di cambiamento della lingua in favore di quelle minoranze che non si sentono rappresentate dall’italiano corrente, predominato dal maschile nelle sue accezioni più comuni. Lo schwa è una vocale senza distinzione di genere, ibrida, fluida, un passaggio codificato tra una “o” e una “a”, un simbolo che abbraccia tutto l’umano non-binario, perché si trova proprio al centro dei simboli fonologici, equidistante da tutto il resto. Se l’asterisco lasciava in sospeso, troncando di netto la parola, lo schwa le dà completezza (anche se rimane di fatto impronunciabile, o meglio: è pronunciabile, ma a fatica).

Per quanto colga la motivazione della rivoluzione, ne possa sostenere le ragioni, non riesco e non voglio fare uso dello schwa. Non si tratta dunque di battaglia ideologica contraria, di difesa cieca della lingua italiana così come la conosciamo, non si tratta nemmeno di abbassare il capo in favore di una lingua “patriarcale” e poco inclusiva, si tratta piuttosto di mancata aderenza alla realtà. Queste battaglie di nicchia, questo posizionarsi nel giusto distorcendo e manipolando la realtà linguistica in favore di un’ideologia sicuramente condivisibile, mi fa pensare all’estremismo green di alcuni attivisti, felici di stare in una bolla di giustezza che non sposta di una virgola i problemi del mondo.
Mi spiego meglio: siamo in un’era di forte scontro identitario, le nuove generazioni si muovono ed evolvono alla velocità della luce, i problemi sono ingombranti, la fine del pianeta vicina, dobbiamo pensare velocemente e agire ancor più velocemente; l’obiettivo da raggiungere è fare e dare spazio ad ogni voce, cambiare prospettiva, salvare il mondo e l’umanità. Vediamo dunque infinite difese in favore di qualcuno o qualcosa, sforzi atti a far capire, far cambiare, far progredire, far avanzare. La rivoluzione linguistica è uno dei baluardi di questo approccio frenetico: la lingua deve cambiare, mutare, plasmarsi, è avvenuto in passato e può accadere oggi.
Ma la lingua cambia quando un gruppo di persone la esasperano o quando un’espressione entra a far parte dell’uso comune? Nasce prima l’uovo o la gallina? Murgia e Gheno potrebbero ribattere che i cambiamenti possono essere indotti e poi assimilati, che se nessuno inizia, il passaggio all’uso comune non avverrà mai, che il nostro modo di scrivere e parlare, a prevalenza maschile, modella inconsciamente anche i nostri pensieri, che per fare la rivoluzione si devono sradicare i preconcetti assimilati in anni e anni di fruizione, che per spezzare questo flusso occorre intervenire, modificare, accogliere.
Comprendo, ma non sono d’accordo.
Mi sono stancata di queste minuscole battaglie ideologiche, è utopico credere che per essere nel giusto si debba accogliere ogni forma di disobbedienza. Non posso lottare per tutto, non ne ho né l’energia, né l’intenzione.
Personalmente non mi sento schiacciata da una lingua patriarcale, credo di essere ben consapevole dei limiti di una lingua (che per definizione è limitata, tutte le lingue lo sono). Abbattere a tutti i costi i generi in favore di un non-genere non mi convince, non è davvero realizzabile, non può essere applicato nella lingua parlata, è un qualcosa che le persone, la massa, non comprende, non userà mai. E non per questo la massa è necessariamente insensibile ai cambiamenti in corso.
Evitare di usare lo schwa non è mettere un muro, non ho paura dello schwa, mi esaspera, è una cosa diversa.
Il fatto che sia difficile da usare, e questo lo ammettono anche alcuni suoi sostenitori, non mi sembra un dettaglio di poco conto. Difficile non è sempre sinonimo di complesso e auspicabile.
Il fatto che chi non si identifica in un genere possa avere difficoltà nell’uso della lingua è un dato di fatto. Tuttavia perché ho l’impressione che ci sia una ventata di egoismo ed egocentrismo estremo?
I colori sono infiniti, ma non esistono infiniti termini per definirli correttamente. Quel colore non smette di esistere solo perché non lo posso definire. Questo vale per tutto: un sentimento, un pensiero, un’emozione.
Lo sforzo comune dovrebbe essere sì quello di trovare accezioni il più attente possibili alle differenze di senso e identità, ma ci sarà sempre e per tutto una polarizzazione centrista, una collocazione che si trova a metà tra giusto e fruibile.
Sarebbe veramente possibile un mondo in cui tutto viene inglobato senza sputare fuori niente e nessuno?
Costruiamo città accessibili a chiunque si trovi sulla sedia a rotelle, quello non toglie, aggiunge.
Bagni e camerini unici per uomini, donne e non-binari, porte chiuse, privacy e agio. Chiedere di costruire bagni unisex in aggiunta a quelli già esistenti è invece utopico, non praticabile.
Faccio questi due esempi per distinguere tra fattibilità e non-fattibilità.
Sono ormai dell’idea che le vere rivoluzioni siano quelle attuabili, quelle aderenti alla realtà che vedo, non alla realtà che immagino. Per realizzare la realtà che immagino devo passare per la massa. Quindi la massa ha sempre ragione? Certo che no. Quindi pur di far star buona la massa non iniziamo nemmeno a indurre cambiamenti? Certo che dobbiamo iniziare, ma con qualcosa di effettivo, che abbia più margine di successo, di attuabilità.
Forse lo schwa lo trovo semplicemente fallimentare in partenza.
“Bravo bravo, ma per me è no”.

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