Il disturbo da lutto prolungato

Da alcuni mesi il disturbo da lutto prolungato è entrato a far parte del DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, il manuale più autorevole per la classificazione delle malattie psichiche. Quando un disturbo entra a farne parte acquisisce dignità di malattia e di conseguenza può essere diagnosticato e trattato farmacologicamente. Per essere diagnosticato il PGD, prolonged grief disorder, deve rispettare alcuni parametri: negli adulti la condizione di lutto deve persistere per più di dodici mesi, nei bambini e negli adolescenti per più di sei mesi. Il soggetto colpito non è più in grado di riprendere le redini della propria vita, il dolore per la perdita rimane costante e impedisce le attività quotidiane, spesso è accompagnato da disturbi del sonno e da stress, episodi da ansia generalizzata e depressione, il pensiero è rivolto ossessivamente alla persona che non c’è più. Come era prevedibile, questo processo ha riaperto un vaso di Pandora mai veramente sigillato: le critiche interne al mondo psichiatrico quando si parla di DSM. Il manuale è spesso criticato per la sua natura schematica, per i limiti che pone alla malattia, per il modo in cui congestiona le situazioni più varie inserendole in dettami severi; tuttavia, essa è la natura intrinseca di un manuale, che non può concedere la libertà soggettiva a ogni paziente, ma che deve dettare regole oggettive per incanalare le diversità.

Il lutto è una condizione naturale dell’essere umano: ogni persona, dopo una perdita, ha bisogno di elaborare quella morte e di inserirla nella propria normalità. Si nasce, si vive e si muore, la morte fa banalmente parte della vita. Ma, se come diceva Epicuro, preoccuparsi della nostra morte non ha senso in quanto “quando ci siamo noi, la morte non c’è; e quando c’è la morte noi non ci siamo”, può essere molto doloroso e debilitante perdere qualcuno di caro, qualcuno fuori di noi, altro da noi, qualcuno che era indispensabile alla nostra vita. Il Disturbo da Lutto Prolungato non corrisponde al dolore per la perdita, ma a una condizione talmente invasiva e persistente, da rendere invivibile il tempo che segue a quella perdita. Il soggetto è confuso, debilitato, oscilla tra periodi di rabbia e periodi di pianto incontrollato, non si arrende all’assenza, non trova soluzioni. Cosa determina però le tempistiche di ripresa? Esse sono connesse al contesto sociale, culturale e religioso in cui il soggetto è inserito. Questo spiega in parte le polemiche che sono sorte, in quanto misurare il dolore e misurarlo in base al contesto culturale lascia qualche dubbio sull’attendibilità delle linee guida. Se anche la società impone dei limiti di aderenza e normalità, cosa impedisce al singolo di soverchiare quei limiti?

Julian Barnes nel suo libro “Livelli di vita” in seguito alla morte della moglie, scrive: “(…) Di conseguenza, anche il lutto diventa inimmaginabile: non solo in termini di durata e profondità, anche di consistenza e di tono, nell’inganno delle sue remissioni apparenti, delle sue ricadute. Come pure nel suo trauma iniziale: all’improvviso precipitiamo nel gelido Mare del Nord equipaggiati soltanto di un ridicolo giubbotto di sughero che in teoria dovrebbe salvarci la vita. Per giunta, niente ci può preparare alla realtà nuova nella quale coliamo a picco.”, e anche “Ci sono momenti che sembrano indicare una specie di progresso. Quando le lacrime – inarrestabili, quotidiane – cessano, per esempio. Quando si recupera la concentrazione e si riesce a leggere un libro come prima. Quando il terrore del foyer svanisce. Quando è possibile staccarsi dalle sue cose (se la vicenda fosse andata diversamente, Orfeo avrebbe dato il vestito rosso in beneficienza). Ma oltre a questo? Che cosa stai aspettando, che cosa cerchi? Il momento in cui la vita torna dal melodramma al romanzo realista. Quando il ponte ferroviario sotto il quale continui a passare ridiventa un ponte come tutti gli altri. Quando annulli retrospettivamente i risultati di quell’esame che alcuni amici hanno superato e altri no. Quando la tentazione di suicidarti alla fine scompare, ammesso che ciò sia possibile. Quando tornano piacere e allegria, sebbene tu riconosca che l’allegria si è fatta più fragile e che l’attuale piacere non ha paragone con la gioia passata. Quando il dolore è «soltanto» ricordo del dolore, ammesso che ciò sia possibile. Quando il mondo torna a essere «soltanto» il mondo e hai la sensazione che la tua vita si svolga di nuovo sul piano orizzontale, con i piedi a terra.”. Per Barnes la morte della donna con cui ha trascorso tutta la vita è un’esperienza devastante, assoluta, non ammette repliche al suo dolore, lo culla e ci si affeziona, come Pereira che dialoga con il quadro della moglie ancora dopo anni.
Pare che Leonard Woolf, dopo il suicidio della moglie Virginia, quando vedeva una Bibbia a casa di amici la rubasse per poi bruciarla, dopo tanto pregare non voleva saperne più niente.         Era il suo modo per espiare la colpa che sentiva dentro, per andare avanti, trasformare il dolore in azione sovversiva, in un gesto, un atto.         
Nel romanzo-memoir “Il male oscuro” di Giuseppe Berto, il protagonista viene assalito da un’insolita sindrome depressiva in seguito alla morte del padre: i sensi di colpa per non averlo accompagnato fino alla fine lo divorano e l’immagine del tumore che lo ha ucciso lo tormentano fino a fargli venire un’ipocondria autoalimentata dalla convinzione che anche lui morirà allo stesso modo, “ (…) sì perché mi sembra proprio che questo dolore stia esorbitando se non è già esorbitato dall’equa proporzione con la colpa che lo ha messo in essere, ad ogni modo non mi conviene certo pensare a mio padre nelle attuali circostanze quando ho fin troppo da pensare ai casi miei, (…)”.

Il lutto è dunque una condizione di passaggio dell’essere umano, che ognuno di noi prima o dopo è destinato a vivere. Eppure, seppur il dolore non sia misurabile, il manuale non tiene di conto di chi è morto e in che fase della vita fosse: la perdita di un figlio è paragonabile a quella di un coniuge anziano? La morte di un giovane è paragonabile a quella di un vecchio? La relazione che il soggetto aveva con il defunto cambia l’andamento delle cose? Accettare una morte annunciata è difficile quanto accettare una morte improvvisa? Nella sezione “Casi clinici” del DSM non aggiornato, si racconta la storia di un uomo di 60 anni, Andrew Quinn, che ha fissato un appuntamento con la sua psichiatra due settimane dopo il suicidio del figlio di 24 anni. Al di là del protocollo che la psichiatra ha seguito pedissequamente, rischiando di far peggiorare le condizioni del paziente, un dato che emerge dalla discussione è interessante: “La preoccupazione per i pazienti di questo tipo è comprensibile, soprattutto alla luce del fatto che il 10-20% degli individui in lutto va incontro a complicanze, sviluppando una sindrome caratterizzata da sentimenti di mancanza profonda e disturbante della persona scomparsa e di rabbia e incredulità rispetto alla sua morte. (…) D’altro canto, per la maggior parte delle persone in lutto la presenza di sintomi depressivi non indica una depressione maggiore.” In sostanza tutti soffrono terribilmente dopo un lutto importante, ma solo alcuni sviluppano una condizione più grave che richiede supporto psicologico tradizionale o farmacologico. La critica di molti addetti ai lavori è infatti il rischio di patologizzare una condizione umana naturale.

In seguito alla pandemia da Coronavirus, in quasi tutto il mondo, c’è stato un periodo massiccio di sospensione dei riti funebri che ha portato all’impossibilità di dire addio ai propri cari, a una distanza siderale tra il prima e il dopo. Molti hanno visto i propri parenti entrare in ospedale e non fare più ritorno, in un clima generale di incertezza che rendeva tutti inerti e sopraffatti. L’assenza del rito ha gettato molti individui in un limbo sospeso, una derealizzazione: non poter vedere, toccare il corpo, non poterlo celebrare e lasciare andare, ha impedito l’elaborazione del lutto stesso. Il contesto sociale e culturale, di cui parlavamo prima, è fondamentale ai fini dell’accettazione, il Coronavirus ha de-umanizzato il fattore morte, rendendo estremamente difficile convivere con la perdita. Di questo il manuale tiene di conto?

I riti religiosi sono tappe fondamentali nel processo del lutto per la maggior parte delle persone, tuttavia ogni religione e credenza ha i propri riti, spesso molto diversi tra loro: per la religione ebraica, una delle più antiche al mondo, esistono protocolli rigidi di comportamento e il lutto e il suo decorso è diviso in tre fasi che durano rispettivamente sette giorni, trenta giorni e un anno (Shiva, Shloshim, Shannah); nel rito funebre islamico il trattamento della salma è repentino, il funerale sobrio, il corpo viene sepolto rivolto alla Mecca, niente di sfarzoso, tutto deve essere umile, il lutto e il cordoglio durano tre giorni durante i quali familiari e amici portano da mangiare e consolano; nel caso di una vedova, è suo dovere portare il lutto e non uscire di casa per quattro mesi e undici giorni. Per i buddhisti invece è praticamente il contrario: il corpo del defunto va conservato un paio di giorni per preparare l’anima al passaggio in un altro corpo, il colore predominante è il bianco, si accendono incensi profumati e si portano fiori, la salma è esposta per tre giorni, poi il corpo viene bruciato e le ceneri conservate o disperse. Per gli induisti il rito è simile, ma con alcune variazioni: il corpo dovrebbe tradizionalmente essere lavato dai familiari con una miscela speciale di latte e miele, poi avvolto in una veste; dopo una breve veglia il corpo viene adagiato su una pira in legno lungo il fiume e fatto bruciare, rito al quale partecipano solo gli uomini seguendo uno schema rigido di gesti e propiziazioni, il giorno dopo si raccolgono le ceneri. Il periodo di lutto dura in media tredici giorni, durante i quali si fa visita alla famiglia portando cibo e conforto, la durata del cordoglio può variare in base alla comunità.   
Come abbiamo visto, nei principali riti funebri, eccetto quello cristiano che conosciamo bene, il lutto ha una durata precisa, scandita da un rituale religioso perpetrato negli anni.

Al di là dei riti che possono aiutare e confortare, la dimensione del lutto rimane una cosa estremamente personale e soggettiva: c’è chi ha bisogno di stare solo, chi in compagnia, chi ha bisogno di un abbraccio, chi di non essere toccato, chi ha bisogno di tempo lento, chi di tempo frenetico, chi ha bisogno di immergersi nei ricordi, chi combatte per venirne fuori. Forse dovremmo iniziare a vedere le linee guida come accenni di direzioni, consapevoli che la mente di ognuno è un universo a sé e che qualcosa che è vero e potente per qualcuno, può non esserlo per qualcun altro. Bisogna forse accettare che i manuali psichiatrici nascono per dare direzioni sommarie, relative a studi condotti su una massa di individui di cui poi si fa una stima, e che le eccezioni confermano le regole, ma valgono quanto le regole stesse. Eccezioni e regole a braccetto, le une su piani paralleli alle altre, senza stigmi ed etichette soffocanti.

Ognuno, si sa, soffre a modo proprio.

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